STORIA DELLA MICOLOGIA

Storia della Micologia Italiana – a cura di G. Bellato

La micologia è una scienza relativamente recente, ma i funghi …sono sempre esistiti! Gli appassionati saranno forse curiosi di scoprire l’evoluzione della conoscenza dei funghi nella storia, attraverso gli studi compiuti dai vari micologi, dalle prime incerte confuse ed errate idee, mescolate a poche valide intuizioni, fino ai grandi progressi degli ultimi due secoli. Il tutto in estrema sintesi e ovviamente…a puntate. Per la bibliografia si fa riferimento prevalentemente a: GIACOMO LAZZARI – 1973: Storia della Micologia italiana. Ed. Saturnia. Trento.

L’antichità classica

L’antichità è avarissima di notizie sui funghi e queste poche sono quasi sempre false credenze e superstizioni, evidentemente favorite dalla natura stessa del fungo (la sua origine sconosciuta, l’improvviso suo apparire e la brevità della sua vita, il suo rapido corrompersi come la carne degli animali, la sua velenosità ecc.). Insomma era considerato qualcosa di diabolico e si può supporre con fondamento che ne facessero uso stregoni ed avvelenatori di professione. Le sintomatologie descrittive della morte di antichi personaggi fanno effettivamente pensare ad avvelenamenti da Amanita phalloides.

Il greco TEOFRASTO (370-287 a.C.), nativo dell’isola di Lesbo e discepolo di Aristotele, è considerato il padre della botanica e a lui risalgono in assoluto le prime definizioni riguardo ai funghi, considerati “piante imperfette, prive di radici, di foglie, di fiori e di frutti”. Ne presenta quattro tipi: i funghi sotterranei (Tuberacee), i funghi terricoli a cappello e gambo (mykés), i funghi sessili e a forma cava (Pezize?) e i funghi a forma rotonda (Licoperdacee).

Con Pedacio DIOSCORIDE entriamo nell’era dopo Cristo. Nato in Cilicia (Asia minore), fu medico militare e civile sotto gli imperatori Claudio e Nerone e ci ha lasciato un trattato in cinque libri “Della materia medica”. Ha lasciato detto qualcosa sulle proprietà tossiche dei funghi ed anche sulla terapia degli avvelenamenti (decotti di erbe, pozioni di aceto e sale, sterco di pollo con miele e aceto…). A lui risale la prima descrizione dell’Agaricum, ossia del Fomes officinalis, molto utilizzato come farmaco nell’antichità, e ne indica le proprietà e l’impiego.

Altro medico greco, di Pergamo, e operante a Roma al tempo di Marco Aurelio fu Claudio GALENO (129-200 d.C.), che individua tre generi di funghi: gli Ovoli, i Porcini ed i Mykés (gli altri funghi a cappello e gambo, ritenuti per lo più tossici). Giudica i funghi non nutrienti, indigesti e pericolosi. Descrive la sintomatologia delle intossicazioni e conferma la terapia con …lo sterco di pollo.

PLINIO IL VECCHIO (23-79 d.C.), nativo di Como, fu ammiraglio della flotta romana e morì vittima dell’eruzione del Vesuvio che seppellì Pompei ed Ercolano, essendosi avvicinato troppo con la sua nave alla spiaggia per verificare personalmente il fenomeno. Ma la sua più grande passione furono le scienze naturali e ci ha lasciato una “Historia naturalis” in 37 libri, la quintessenza del sapere naturalistico del tempo, a cui hanno attinto a piene mani tutti i naturalisti fino al secolo XVIII.

Egli sconsiglia l’uso dei Boleti (per gli antichi Romani erano gli Ovoli) facilmente scambiabili con specie velenose ed individua in maniera chiara il fungo che noi ora chiamiamo Amanita muscaria, insieme con l’esatta nozione dell’origine delle verruche, che “altro non sono che i residui del velo”. Secondo Plinio questi funghi possono diventare velenosi se nascono:
– in vicinanza di chiodi da scarpa, ferri arrugginiti e panni fradici;
– nelle vicinanze di qualche tana di serpente, perché la loro natura è di assorbire qualunque tipo di sostanza velenosa.

Quanto questi pregiudizi hanno fatto presa nella fantasia popolare fino ai nostri giorni!

Plinio descrive però esattamente lo sviluppo degli ovoli ed è il primo ad usare il termine “volva” nel suo significato micologico.

“La loro origine, dice Plinio, va ricercata nel limo della terra umida e nei suoi umori, che incominciano a fermentare, oppure nelle radici delle piante cupulifere”: se è vero che tale descrizione influenzò per secoli le opinioni dei naturalisti che continuarono a considerare i funghi come prodotti della fermentazione del terreno o escrescenze degli alberi, è anche vero che traspare da essa una qualche intuizione del fenomeno del saprofitismo e della simbiosi micorrizica. Dobbiamo a Plinio l’individuazione, ovviamente con altro nome, della Fistulina hepatica e della Lepiota procera. Egli parla molto dei Suilli (odierne Boletacee), considerandoli “molto inclini al veleno”. Molto dipende, secondo il Nostro, dalle piante presso le quali i funghi crescono: innocui quelli sotto conifera, fico e ferula, tossici invece sotto faggi, querce e cipressi (come non pensare all’Amanita phalloides, inesistente sotto conifera ma tipica delle latifoglie, o all’ottimo Pleurotus eryngii var. ferulae?). Tenuto conto che i funghi sono così pericolosi, Plinio ne sconsiglia l’uso; però offre consigli, peraltro ingenui per noi moderni, a chi proprio li vuol mangiare (uso di vasellame d’argento o ambra, lunga cottura, molto aceto ecc.).

Plinio si cimenta anche a parlare dei Tartufi, che nascono in autunno specialmente dopo temporali accompagnati da tuoni e fulmini e racconta di un pretore romano che a Cartagine si ruppe i denti addentando un tartufo che aveva conglobato una moneta (si trattava con ogni probabilità della Terfezia leonis, tartufo conosciutissimo fin dall’antichità). Anch’egli descrive infine il Fomes officinalis, anche se in maniera imprecisa, basata su informazioni difettose.

Il Medioevo

Nel Medioevo, periodo che per convenzione va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.) alla scoperta dell’America (1492), la cultura e la scienza, contrariamente al luogo comune che lo considera periodo di oscurantismo, ebbero un notevole sviluppo, anche se limitato ai conventi (veri salvatori della cultura classica attraverso l’opera degli amanuensi) o all’area del mondo arabo. Un forte slancio della cultura, che prelude alla splendida epoca del Rinascimento, si ebbe dopo il Mille, con la nascita dei Comuni, delle lingue nazionali e delle Università.

Sul fronte delle scienze naturali possiamo ricordare il celebre medico arabo Avicenna ed il teologo e filosofo tedesco S. Alberto Magno (sec. XIII). Per quanto riguarda i funghi abbiamo però un silenzio pressoché totale. Una notizia sporadica ma interessante ci viene da Alberto Magno che nel suo libro “Sui vegetali” nomina per la prima volta l’Amanita muscaria ed accenna al suo uso come moschicida presso le popolazioni nordiche.

Il Rinascimento

Il Rinascimento (dalla fine del XIV alla fine del XVI secolo), grazie alle mutate condizioni socioeconomiche ed all’invenzione della stampa, riscopre e divulga le antiche opere letterarie, filosofiche ed artistiche ed apre una nuova era anche per la botanica, elevata alla dignità di scienza: vengono tradotte opere dal greco al latino, vengono commentate ed arricchite, vengono stampati splendidi “Herbarii”.

ERMOLAO BARBARO (1454 – 1492), patrizio ed uomo politico veneziano, commentatore di Plinio, traduttore e commentatore di Dioscoride. Dal commento a Dioscoride veniamo a sapere che i Greci consideravano i funghi “cibo degli dei” o addirittura “figli degli dei”, in quanto sembra che essi nascano senza concorso di seme. E. parla di alcuni generi di funghi, i cui nomi corrispondono abbastanza ai nostri odierni; ad es. “vi sono poi i funghi Aegiritae, che si possono coltivare sui tronchi stessi del pioppo, bagnandoli con fermento e con acqua”. Ci fa conoscere il lapis lyncurius o pietra della lince o Pietra fungaia: seguendo le opinioni popolari del tempo, E. riteneva nascesse da una pietra creduta orina di lince fossilizzata. Questo fungo nelle epoche successive ecciterà al massimo la fantasia dei naturalisti facendo scorrere fiumi di inchiostro. Si tratta in realtà del Polyporus tuberaster, che forma degli sclerozi bulbosi sotterranei che possono pesare anche diversi chilogrammi ed hanno l’aspetto di un sasso. Originale è anche la notizia riguardante gli Ignarii, cioè i Polipori “da esca”; si tratta del Fomes fomentarius, utilizzato nei secoli passati per conservare il fuoco e per produrre una massa cotonosa ad azione emostatica.

PIER ANDREA MATTIOLI (1500 – 1577), senese di nascita, laureato in medicina all’università di Padova e stabilitosi per esercitare l’arte medica a Trento, nel cui duomo è sepolto. La sua fama è legata ai Commentarii della materia medica di Pedacio Dioscoride, opera stampata a Venezia nel 1554, dotata di splendide tavole, vero best seller (60 edizioni in duecento anni) e guida insostituibile per medici, farmacisti e naturalisti.
La sua è un’opera eclettica (medicina, farmacologia, zoologia, mineralogia, soprattutto botanica) ed i funghi sono trattati in alcuni capitoli.
Egli ci parla dei Prignoli, per noi prugnolo o Calocybe gambosa, molto diffusi in Toscana, “odorosissimi, gradevolissimi al gusto e senza pericolo”.
Per quanto riguarda i Porcini, basandosi sulla credenza popolare già risalente a Plinio, ritiene velenosi quelli a carne virante; la popolarità e l’autorità del M. contribuirono come sappiamo ad accreditare per secoli questa falsa convinzione relativa ai boleti a carne cangiante.
Interessante è un passo del M. relativo ad un fungo, oggi individuato come Laetiporus sulphureus, crescente sulle montagne della Val di Non, “così grande da pesare 25-30 libbre, di colore rosso acceso, frastagliato”.
Un altro suo “autorevole errore” – che dimostra come la vecchia superstizione sulle cause della tossicità dei funghi fosse ancora incredibilmente radicata anche presso gli scienziati più qualificati del Rinascimento, e che ha purtroppo accreditato tale falsa credenza fin quasi ai nostri giorni – riguarda i funghi lignicoli, ritenuti dal M. tutti innocui (ma pensiamo al tossico Omphalotus olearius!) perché crescendo sugli alberi “non vi è pericolo che nascano su ferro, né su panno fradicio, né su serpente morto o altro animale velenoso”.
Sul fronte della terapia degli avvelenamenti non andiamo certo meglio: provocare il vomito con ogni mezzo, somministrare un decotto di origano e satureia, di sterco di pollo impastato con aceto e miele, di succo di ruta, di teriaca e mitridato…
Un capitolo è dedicato ai tartufi, dalla scorza ruvida e nera ma dalla polpa a volte bianca a volte nera, “cavati in abbondanza dai nostri contadini, essendo molto apprezzati dalle persone facoltose”. Ne descrive anche alcuni che “oltre ad essere piccoli, hanno la scorza liscia e pallida, ma sono scipiti e poco gradevoli al gusto”: probabilmente i Rhizopogon o gli Elaphomyces.

PIER ANDREA CESALPINO (1525 – 1603), aretino, professore all’università di Pisa e prefetto di quel celebre Orto Botanico, medico del papa Clemente VIII e di uomini celebri come S. Filippo Neri e Torquato Tasso, scopritore della circolazione sanguigna e dei capillari sanguigni.
Scrisse un’opera specificamente botanica: De plantis libri XVI (Firenze 1583), in cui descrive nuove piante e tenta una classificazione dei vegetali, dividendoli in 15 classi ed anticipando così di due secoli i lavori di Tournefort e di Linneo: per questo lo si può considerare il Padre della botanica italiana.
E’ il primo botanico che indugia a parlare specificamente di funghi, risentendo ovviamente degli errori comuni ai suoi tempi. I funghi sono ancora considerati vegetali “privi di frutto e di seme” costituiti di una qualche “materia incomposta”.
La sua classificazione non è fatta per generi e specie (concetti introdotti solo quasi due secoli dopo da Linneo), ma solo per gruppi, esattamente 18, alcuni dei quali meritano qui una telegrafica citazione (fra parentesi il nome moderno corrispondente):

  1. Tuber (Tuber), a corteccia nera, di Norcia, o a corteccia bianca.
  2. Pezicae (Lycoperdon) o Vesce, commestibili, bianche, grosse anche come la testa di un uomo.
  3. Boleti (Amanita) a forma di uovo quando sono nella terra.
  4. Suilli (Boletus), nascono tra le eriche e le felci, a carne bianca. Sono malefici quelli con la carne che diventa livida o con la parte concava (per noi imenio) giallastra o verdognola.
  5. Lapis lyncurius (Polyporus tuberaster).
  6. Prateoli (Agaricus), nascono nei prati, poco valore come cibo e non esenti da pericolo.
  7. Prateolis similes, iuxta stercora (Coprinus), simili ai precedenti, nascenti presso letame, velenosi.
  8. Famigliole (Armillariella mellea), riuniti a cespo per mezzo di lunghi gambi, presso i cespugli, poco raffinati come gusto.
  9. Scarogie o Cannelle (Lepiota procera), poco carnoso, con anello, lungo gambo che sembra sostenere un’ombrella.
  10. Gallinacei (Cantharellus) color zafferano, a forma di ventaglio. “I villici li mangiano senza pericolo”.
  11. Fuoco silvestre (Clathrus cancellatus), novità descritta dal C.
  12. Linguae (Fistulina hepatica) sulle ceppaie di castagno, di colore sanguigno dentro e fuori, eccellenti ed innocui. Novità descritta dal C.
  13. Digitelli o Manine (Clavaria).
  14. Igniarii (Fomes fomentarius) detti volgarmente “esca”, usati per conservare il fuoco ottenuto con la pietra focaia, nascono sulle ceppaie, a forma di zoccolo di cavallo. Con la loro parte inferiore, scabrosa, si usano nelle barbierie come spazzole.

L’aspetto più interessante dell’opera del Cesalpino è che fra le specie ed i gruppi da lui descritti sono pochi quelli che lasciano dubbi sulla loro

interpretazione. Inoltre egli “indovinò” la commestibilità di alcuni funghi (Lycoperdon, Armillariella mellea, Lepiota procera, Cantharellus cibarius) che altri micologi più tardi avrebbero definito, sbagliando, tossici.
Concludendo, egli fu il primo botanico a dare una certa completezza alla trattazione micologica e come tale fu riconosciuto dagli autori posteriori.

LEONE L’AFRICANO, nome latinizzato di Al-Hasan Ibn Muhammad, arabo spagnolo dalla vita avventurosa, finito alla corte di Papa Leone X, il grande mecenate del Rinascimento. Siamo nell’epoca delle grandi scoperte geografiche e, sollecitato dal Papa, Leone l’Africano scrive una Descrittione dell’Affrica et delle cose notabili che qui sono, dove per la prima volta troviamo una chiara descrizione ed interessanti notizie sulla Terfezia leonis, una tuberacea molto comune nelle zone del bacino mediterraneo.

ULISSE ALDROVANDI (Bologna, 1522 – 1605), fu docente all’Ateneo bolognese e passò tutta la sua lunga vita in studi, viaggi e ricerche di ogni genere nel campo delle scienze naturali. Scrisse una Storia naturale in 15 libri, di cui solo quattro pubblicati lui vivente. Di questi, uno solo, Dendrologia (storia naturale degli alberi), interessa la botanica ed una breve trattazione riguarda i funghi arboricoli. Vengono prese in considerazione 25 specie di funghi arboricoli, ma con illustrazioni e descrizioni piuttosto scadenti. Secondo il Fries, all’Aldrovandi spetta comunque la priorità nell’avere individuato e raffigurato in modo chiaro tre specie: Trametes cynnabarina , Ganoderma lucidum e Sarcoscypha coccinea.

FERRANTE IMPERATO, farmacista e naturalista vissuto a Napoli nel XVI secolo, ci ha lasciato una Historia naturale in cui i funghi sono trattati fugacemente. Pur non essendo un vero micologo, si guadagnò l’apprezzamento del Fries ed ha il merito di aver riconosciuto per primo che la “pietra fungaia” non è un sasso ma una produzione vegetale sotterranea.

CAROLUS CLUSIUS, nome latinizzato di Charles de L’Ecluse, nativo della Fiandra e addottoratosi in medicina a Montpellier, grande botanico e viaggiatore, diresse gli Orti botanici di Vienna, soggiornò lungamente in Ungheria e terminò la sua carriera alla sospirata cattedra di botanica dell’università di Leida. La sua opera Fungorum in Pannonia observatorum brevis historia (Breve storia dei funghi osservati nella Pannonia) è il risultato delle ricerche compiute in Ungheria. Essa è importante perché costituisce il primo esempio nella storia di un opuscolo dedicato esclusivamente ai funghi, di cui descrive, con abbondanza di notizie, un centinaio di specie, inquadrandole in due grandi categorie: Edules (mangerecci) e Noxii (tossici). Clusius si può considerare un vero pioniere della micologia perché, pur non esistendo ancora ai suoi tempi una metodologia scientifica, e tanto meno micologica, seppe fornire numerose descrizioni e denominazioni popolari in tedesco ed ungherese che facilitarono enormemente il lavoro di identificazione dei micologi successivi.

HADRIANUS JUNIUS (1512 – 1575), medico e naturalista olandese ci ha lasciato una dissertazione sul Phallus impudicus (chiamato dopo di lui Phallus hadriani), in assoluto la prima monografia micologica apparsa in Europa.

ALFONSO CICCARELLI, medico umbro morto nel 1580, con il suo Opusculum de tuberibus, ha invece stabilito il primato di prima monografia micologica stampata in Italia. In 19 capitoli redatti in elegante latino affronta e discute quasi tutti gli aspetti di questi interessanti prodotti della terra, così di casa nella sua regione.

MARCO AURELIO SEVERINO, naque a Tarsia (CS) il 2 novemvre 1580 da Giacomo, noto giureconsulto e da Beatrice Oranges. Si laureo in medicina nell’Università si Salerno”il più antico e rinnomato Collegio Medico d’Europa (come nota orgogliosamente egli stesso)”. Nel 1622 gli fu assegnata la Cattedra di Anatomia e Chirurgia nell’Ateneo napoletano, nonchè il posto di Capo Chirurgo Ordinario nel Nosocomio degli Incurabili, dove introduse nuove iniziative, nuove teorie, nuove pratiche e nuove strumentazioni chirurgiche. Nel campo della pratica chirurgica fu uno dei primi ad operare di tracheotomia, pratica che adoperò ampiamente nell’epidemia di difterite che si verificò a Napoli durante la sua permanenza. La notorietà che gli derivò dall’attività e capacità di Chirurgo, lo posero al centro dell’attenzione degli ambienbi medici e chirurgici del tempo, non solo napoletani, ma internazionali, per cui nell’Ateneo Partenopeo arrivarono medici da tutta Europa e specialmente dalla Germania. Le sue opere chirurgiche, “Sulla natura degli ascessi”, stampata a Napoli nel 1632, “Sull’efficacia della medicina”, stampata a Francoforte nel 1646 e quella “Sulla chirurgia” stampata pure a Francoforte nel 1653, mostrano come egli abbia ampiamente meritato il titolo datogli dallo storico Principe della Medicina italiana, Sanvatore de Renzi di “Rigeneratore della Chirurgia italiana”. Durante un’altra epidemia che colpì Napoli nel 1656 fu nominato Presidente del Collegio Medico incaricato di accertare la natura del male, detto “Morbo corrente” (Peste), che già nel giugno dello stesso anno falciava, in media, duemila vittime al giorno. Malgrado le sollecitazioni e pressioni di amici di allontanarsi da Napoli, dove “il problema dominante era ormai diventato solo quello di allontanare i cadaveri”, non volle abbandonare la città. Morì di peste il 12 luglio 1656.
All’epoca di Marco Aurelio Severino, molti ricercatori e studiosi si interessarono all’argomento della “pietra fungaia” specialmente dell’Italia Meridionale, sulle cui montagne era più frequente trovarla. Molti naturalisti italiani avevano espresso la loro opinione sulla strana, dura, compatta produzione, che, sepolta in poca terra e regolarmente innaffiata era capace di produrre, per un tempo più o meno lungo, un’abbondante messe di carpofori commestibili. Le spiegazioni di tale fenomeno eranostate, fino al tempo del Severino, varie, incerte se non addirittura fantastiche: si credeva, ad esempio, che la pietra fungaia, detta anche “pietra l’incuria” fosse urina di lince fossilizzata e che, partecipando della natura animale e di quella minerale, avesse la facoltà di dare origine a produzioni vegetali, o al limite del Regno vegetale, quale appunto venivano consederati i funghi. Lo studioso calabrese nell’affrontare l’argomento, prese in esame con minuziosa ricerca, sritti e pareri di numerosi naturalisti e studiosi di più discipline, da Caio Plinio Secondo ad Ermolao Barbari, Andrea Cesalpino, Pietro Andrea Mattioli, Ferrante Imperato; dal celebre fiammingo Carolus Clusius a Gerolamo Cardano a Giulio Cesare Scaligero, suffragando la razionale ricerca, (degno seguace della Nuova Scuola Sperimentale), con analisi chimiche possibili in quell’epoca.
Severino era convinto che le “pietre fungaie” non fossero pietre vere e proprie, ma formazioni fungine soterranee, nè più nè meno come i tartufi, capaci di generare funghi, così come credeva Ferrante Imperato che le chiamava “fartufi fongarii”. Era convinto che la “pietra fungaia”, partecipando della natura dei tartufi, fosse un vegetale, anzi una spugna vegetale fossilizzata, capace d’impregnarsi di una grande quantità d’acqua e diventare matrice di funghi. La validità della sua tesi fu confermata dai risultati dell’analisi chimica condotta sui campioni di “pietra fungaia” assieme ad altri ricercatori, e dimostrò come questa non potesse assolutamente essere consederata pietra in quanto la distillazione secca del materiale non aveva dato altro che “acqua fatua”, “oleum guaiacinum”, cenere e carbone. Oggi si può dire, anche se le conclusioni dello scienziato calabrese non arrivarono perfettamente alla determinazione dello sclerozio di Polyporus tuberaster, che il metodo di ricerca e studio da lui adottato riflette una convenzione nuova ed efficace nell’indagare la Natura e i suoi fenomeni.

Il Seicento

Nel Seicento la botanica, se non proprio la micologia, compie significativi passi avanti grazie all’istituzione degli Orti botanici e delle Accademie scientifiche, mentre si hanno le prime applicazioni del microscopio.

Gli Orti botanici sono istituzioni curate dalle università nelle quali vengono coltivate, ricreando gli opportuni habitat, le più svariate specie vegetali, a scopo didattico e di ricerca.

Nell’età moderna il primo Orto botanico fu fondato a Padova nel 1545 (è tuttora esistente, anche se chiuso per ristrutturazione, e dotato di una fornitissima biblioteca), seguito subito dopo da quello di Pisa, di Bologna ecc. Fra gli Orti stranieri ricordiamo quello di Parigi – chiamato nel Seicento Jardin du Roi – di Oxford, Berlino, Uppsala ecc.

Le Accademie delle Scienze si possono considerare libere associazioni di scienziati che, isolati fra l’ignoranza delle masse da una parte e il conservatorismo delle università del tempo, cercano di comunicare fra loro, di confrontarsi, di sperimentare. Anche in questo caso l’Italia è apripista con G.B. Porta, fondatore della Academia Secretorum Naturae a Napoli nel 1560. Nel 1603 è la volta della famosissima Accademia dei Lincei, fondata da Federico Cesi a Roma, tuttora esistente ed operante. Fra quelle estere ricordiamo la Royal Society di Londra (1662) e l’Académie des Sciences di Parigi (1666).

L’Accademia dei Lincei (da lince, animale si diceva dotato di acutissima vista, quindi modello dello scienziato scrutatore della natura) ebbe fra i suoi membri Galileo Galilei, che stimolò l’uso del microscopio da lui perfezionato, ed il micologo riminese Antonio Battarra.

FEDERICO CESI (1585-1630) va ricordato, oltre che come fondatore dell’Accademia dei Lincei, per avere raccolto, assieme all’amico GIOVANNI HECK, una Iconografia di funghi costituita da un gran numero di tavole colorate, che era conservata nella biblioteca privata di papa Clemente XI: tre volumi in folio, ciascuno con 200 tavole, ogni tavola 2-3 specie fungine. Passato più volte di proprietà e già dato per perso, il prezioso codice è stato ritrovato negli anni Ottanta (recentemente ne parla P. De Gregorio, Bollettino AMER, 38-39, 1996, pp.50-53), si trova nella Biblioteca dell’Institut de France a Parigi ed è ora in corso di pubblicazione sotto gli auspici della Royal Library di Kew.

GIOVANNI BATTISTA PORTA (1540-1615), scienziato di mente aperta, si dedicò alle più svariate branche del sapere, scrivendo numerose opere. Di funghi ci parla nel cap. 70, libro X della Villa (1592), sia riportando quanto detto dagli antichi, sia con sue proprie osservazioni e un tentativo di classificazione. Descrive per la prima volta nella botanica italiana alcune specie come le Spongiole, le Monacelle (Elvelle), la Peperella (Lactarius piperatus), il Richione (Pleurotus eryngii). Grande merito del Porta è quello di avere per primo esplicitamente affermato, quasi due secoli prima che P.A. Micheli ne desse una dimostrazione sperimentale, la probabilità che i funghi si riproducano per seme; questo nell’opera Phytognomonica del 1588.

FABIO COLONNA (1567 – 1650), napoletano e accademico dei Lincei, autore di numerose opere botaniche ed originale per l’impulso dato alla sistematica botanica. Nel suo libro Ekphrasis (1606) presenta solo 6 specie fungine, ma con chiarezza descrittiva ed evidenza dei disegni mai viste prima: il Cardoncello (Pleurotus eryngii), le Pezicae Plinii, il Pleurotus ostreatus, la Lepiota procera ed il Clathrus cancellatus.

L’origine dei funghi nell’età barocca

Fino al Seicento gli scienziati non si erano preoccupati di indagare su come si riproducono i funghi, anche se avevano intuito trattarsi di vegetali del tutto particolari, ed avevano riposato tranquilli sulle teorie di Aristotile. L’autorità di questo insigne filosofo, il più grande dell’antichità, era riconosciuta anche nelle questioni scientifiche e nessuno aveva mai osato contestarne le affermazioni. Pertanto, come egli aveva sostenuto, era opinione diffusa che i funghi nascessero per generazione spontanea, senza seme. Nel Seicento nascono i primi dubbi su questa teoria, si discute, si polemizza, si fanno nuove proposte e scoperte (ma la certezza sulla riproduzione per spore arriverà, dopo le intuizioni del Micheli, solo nell’Ottocento con Pasteur).

Alcuni sostenevano la riproduzione “per frustuli”, o frammenti, basata sull’esperienza dell’inserimento di frammenti di fungo nella lettiera di letame equino, utilizzata nei vecchi metodi di coltivazione artificiale dei Prataioli. Fra questi anche il celebre MARCELLO MALPIGHI (1628 – 1694), il quale però, assieme a notevoli osservazioni sui funghi microscopici, avanza anche l’ipotesi che i funghi possano essere provvisti di semi. La “voglia” di trovare i semi dei funghi fece prendere anche qualche abbaglio; ad esempio il tedesco Christian MENTZEL scambia per semi i peridioli, quelle piccolissime “uova” contenute nel Cyathus striatus. Secondo Paolo Silvio BOCCONE invece i semi ci sono, sono minutissimi e si trovano dispersi negli umori vischiosi del fungo.

I fautori della generazione spontanea in sostanza si rifacevano a Plinio, che vedeva nei funghi il risultato di una fermentazione dei succhi della terra o della linfa degli alberi; fenomeno che poteva verificarsi sia su piante morte o malate, sia su piante viventi e sane, ma destinate alla morte.

Va detto che questi personaggi, pur sostenendo opinioni per noi moderni assurde, erano, in rapporto allo stato delle conoscenze di quel tempo, degli attentissimi studiosi che sostenevano le loro idee sulla base di continue ed acute esperienze.

FORTUNIO LICETO, genovese, autore del libro più antico – e non citato nella “Storia della Micologia” di G. Lazzari – presente nella biblioteca del Centro Studi di Vicenza: il De spontaneo viventium ortu, opera dedicata al senatore veneto Lorenzo Giustiniani, stampata nella tipografia di Domenico Amadio a Vicenza, nel 1618. E’ un esempio tipico di come la cultura barocca affrontava i problemi scientifici appoggiandosi alle teorie di Aristotile. Adattando le teorie aristoteliche, l’autore tratta della generazione spontanea degli esseri viventi, che comunemente si dice nascere “ex putri”, cioè dalle sostanze marcescenti; esamina le opinioni correnti sulla questione ed espone poi le cause generiche e specifiche della generazione spontanea. Il testo è costituito di 323 pagine, suddivise in prefazione e quattro libri. Vi troviamo bizzarre spiegazioni sull’origine dei funghi: essi nascono dalla pietra, dagli escrementi animali, dal legno, ed in particolare vengono date spiegazioni sull’origine del “tartufo dei cervi.

FERDINANDO MARSIGLI (1658 – 1730), uomo d’arme e scienziato, pubblica nel 1714 una Dissertatio de generazione fungorum, interessante per l’acutezza che dimostra nell’attento esame della parte radicale e sotterranea del carpoforo, nel disegnare le sezioni del substrato, nella descrizione e riproduzione delle ife e del loro intreccio ad ingrandimento microscopico: un lavoro di impostazione sperimentale notevole.

GIOVANNI MARIA LANCISI (1654 – 1720), ecclesiastico e celebre medico archiatra pontificio, pubblica nello stesso volume del Marsigli una Dissertatio epistolaris de ortu, vegetatione et textura fungorum, in cui sostiene che i funghi altro non sono che escrescenze patologiche vegetali analoghe a quelle che si formano nel corpo umano; morfologia e colori dipendono dalle condizioni in cui ha luogo la fermentazione, la tossicità dipende dalle piante che li producono: in sostanza ripete i concetti già espressi da Plinio.

PAOLO BOCCONE (1633 – 1704). Palermitano di nobile famiglia, compì numerosi viaggi di studio in tutta Italia e all’estero, finché a cinquant’anni si fece monaco cistercense, continuando tuttavia a viaggiare. Naturalista molto famoso ai suoi tempi, va ricordato perché nello studio dei funghi preferì alle descrizioni analitiche la rappresentazione per disegni, scelta quanto mai opportuna in micologia.
L’opera che di lui ci interessa, Museo di fisica ed esperienze, è del 1697 e riporta ben 44 specie sotto forma di disegni, non molto eleganti ma veritieri, tanto che sono stati tutti riconosciuti con precisione da Fries e da altri micologi. Una ventina di specie non erano mai state rappresentate prima, ad es: Lycoperdon saccatum, Cortinarius violaceus, Lycogala epidendron, Lycoperdon pyriforme ecc. Lo stesso Fries adottò nella sua nomenclatura diverse denominazioni specifiche già usate dal Boccone.

La micologia agli inizi del Settecento

Il progresso nello studio dei funghi, rispetto a quello della botanica vera e propria, era comunque molto modesto, essendo questo settore naturalistico considerato trascurabile. L’interesse per i funghi si ravviva tuttavia tra Sei e Settecento ad opera di alcuni studiosi europei.

JOHN RAY (1628 – 1705), botanico e teologo a Cambridge, fu un meticoloso descrittore di funghi nelle sue opere: Historia plantarum (1686) e Synopsis methodica (1690) in cui rappresenta ben 184 specie di funghi. Di essi tenta una classificazione in “terrestres”, “arborei” e “suterrestres” o ipogei. Ciascun gruppo viene poi distinto in: funghi a cappello (con o senza lamelle), privi di cappello, inseriti lateralmente sui tronchi d’albero, risolventisi in polvere a maturità e ipogei.

JOSEPH PITTON DE TOURNEFORT (1656 – 1708), di Aix en Provence, uno dei più grandi botanici di tutti i tempi, direttore dell’Orto botanico di Parigi, si può considerare precursore di Linneo nel tentativo di creare un sistema di classificazione delle piante, che egli basò su un unico carattere, quello del fiore. Si occupa di funghi soprattutto nel trattato Istitutiones rei herbariae (1700), considerato il caposaldo della botanica prima di Linneo.
Secondo l’Autore i funghi rientrano, con i muschi, nella classe delle “Erbe e suffrutici sprovvisti di fiore e seme” e vengono suddivisi in 7 gruppi, che possono essere considerati come Generi: Fungus (con cappello e gambo, con lamelle o tubuli, grosso modo il nostro Ordine Agaricales); Fungoides (forma incavata o ad imbuto); Boletus (con alveoli o finestre, per noi le Morchellacee, Clathracee ecc); Agaricus (quelli che nascono sui tronchi degli alberi); Lycoperdon (funghi che a maturità si dissolvono in polvere, prevalentemente Gasteromiceti); Coralloides (Ramarie) e Tuber (ipogei).
Interessante notare che in una relazione sulla coltivazione artificiale dell’ Agaricus campestris o bisporus, T. si dichiara convinto che almeno questi funghi si riproducano mediante propri semi e non per semplice virtù del letame equino.

JOHANN JAKOB DILLEN (DILLENIUS (1687 – 1747), famoso soprattutto come studioso di piante crittogame, si occupò in gioventù anche di funghi (Cathalogus plantarum circa Gissam nascentium del 1719) descrivendo in tutto 160 specie e contribuendo notevolmente alla micologia dal punto di vista sistematico.
Egli suddivide i funghi in due classi: con cappello e gambo, senza cappello.
Nella prima classe pone: a) lamellati (genere Amanita), b) aculeati (Erinaceus), scrobiculati (Morchella), porosi (Boletus).
Nella seconda classe: a) con gambo (Fungoides), b) sprovvisti di gambo.
Questi a loro volta sono a forma piana (Agaricus, lamellati, porosi, villosi, lisci ecc.) o a forma concava: membranacei (Peziza) o pieni (Bovista e Tuber).
Come si vede, si tratta di una classificazione indovinata, ordinata e metodica, che fu infatti preferita da Linneo.

SEBASTIEN VAILLANT (1699 – 1722), contemporaneo e concorrente di Tournefort nella carriera universitaria, lasciò incompiuta una grandiosa opera, Botanicon Parisiense pubblicata postuma nel 1727. La parte micologica fu elaborata dagli editori su appunti trovati fra le sue carte. Egli racchiude un totale di 161 specie in 9 generi: Agaricus, Boletus, Clavaria (creato di sana pianta), Corallo-fungus, Coralloides, Fungoides, Fungus, Lycoperdon, Tubera. Parecchie di queste specie sono del tutto nuove (es. Cordiceps militaris, Craterellus cornucopioides, Schyzophyllum commune). Egli è il primo nella storia a descrivere l’Amanita phalloides, con tavola e testo, pur non prendendo in considerazione il problema della commestibilità (lo farà solo Paulet 60 anni dopo). Tentò inoltre di mettere ordine nel gruppo estesissimo dei funghi con cappello (per lui genere Fungus), distinguendo 6 famiglie in base all’imenio: liscio, papillato, aculeato (Idni), tubuloso (Boleti), con nervature (Cantharellus), con lamelle (Agaricacee). Suo merito principale è la precisione ed esattezza delle caratterizzazioni che hanno permesso di far conoscere per la prima volta un numero notevole di nuove specie.

PIER ANTONIO MICHELI (Firenze,1679 – 1753) Con Micheli possiamo dire di trovarci di fronte al fondatore della moderna micologia, almeno come autore di alcune fondamentali scoperte micologiche.

Cenni biografici
La passione per la botanica nacque nel M. dalla lettura delle opere del Mattioli e del Boccone, fatta mentre era apprendista rilegatore di libri; una passione irrobustita poi dalla frequentazione dei frati di Vallombrosa e dei loro boschi sparsi nella montagna toscana e che lo portò, non ancora ventenne, ad avere un suo ricchissimo erbario e ad intrattenere rapporti e scambi con gli scienziati europei. A 27 anni diviene botanico di corte del Granduca Cosimo III, con una rendita annua e con il compito principale di procurare piante per i Giardini botanici della Toscana, cosa che fece con numerosi disagiati viaggi in tutta Italia.
Dopo un avventuroso viaggio in Germania, (dove era stato mandato dal Granduca a fare spionaggio industriale sulla fabbricazione della latta!), gli fu donata l’opera di Tournefort e si applicò specificamente allo studio delle piante crittogamiche, ritenute allora “piante senza seme”. Ma M. non era convinto che potessero esistere piante senza seme e quindi si dedicò ad osservazioni minute aiutandosi con lenti di ingrandimento e col microscopio. Studiò le crittogame in genere, in particolare le briofite (muschi), ma soprattutto i funghi e le polveri sporali, sospettando subito si trattasse di polvere seminale. Intanto cresceva a dismisura la fama di questo giovane scienziato, che non aveva titoli di studio ma corrispondeva con i maggiori botanici italiani ed europei.
Nel 1717 fondò con altri appassionati la Società Botanica fiorentina alla quale fu affidato il”Giardino dei Semplici”, nel quale vegeta ancor oggi un tasso da lui piantato.
Le ricerche scientifiche del M. sono affidate al suo capolavoro Nova plantarum genera, stampato nel 1729 dopo una via crucis di preghiere e solleciti per ottenere i finanziamenti necessari. Riuscì ad ottenere uno “sponsor” per ognuna delle 105 tavole che compongono l’opera. Ricordiamo che nella Biblioteca del Centro Studi dell’AMB si trova questo libro ed addirittura il manoscritto autografo!
M. morì nel 1737, di ritorno da un disastroso viaggio nel Veneto, con tappa anche a Vicenza. Giace ora in Santa Croce di Firenze, fra i Grandi d’Italia. Nel suo epitaffio sta scritto: “contento di poco, versatissimo in ogni scienza naturale, famoso ovunque per le sue scoperte e i suoi scritti e sommamente caro a tutti i buoni della sua epoca per la sapienza, buon carattere e modestia”. E il Fries testimonia: “Il M. da solo ha apportato alla micologia un incremento maggiore che tutti gli altri scienziati presi insieme”.

La scoperta delle spore
Il grande merito del M. sta nelle scoperte di biologia fungina. Anche se in parte anticipato da alcune intuizioni del Tournefort, egli è infatti il primo a dimostrare che anche i funghi si riproducono per seme e non per generazione spontanea. Chiarissimo in lui è il concetto di primordio, come del velo generale e dello sviluppo dei giovani carpofori: “tutti questi funghi, avanti che facessero vedere la loro forma di fungo, stavano involti dentro un guscio o spoglia, la quale in alcune specie di essi, col crescere che facevano, si disperdeva in alcuni in polvere, in altri in forfora, in altri in lanuggine, e finalmente in altri in piccoli pezzetti, i quali restavano permanentemente sul cappello dei medesimi”.
Dopo accuratissime indagini microscopiche si convinse che il segreto della riproduzione dei funghi stava nella faccia inferiore del cappello; qui scoprì “dei minutissimi semolini distribuiti … con ordine regolarissimo; e … ognuno di loro stava situato sopra una base, la quale mi fece dubitando dire: chi sa che non sia il fiore o il calice dei funghi”? Ecco scoperti basidi e spore. A lui si deve anche la scoperta dei cistidi.
Molte sono le esperienze, descritte dal M. nelle sue opere, di semina con le spore in habitat naturale e di riproduzione in laboratorio di varie specie di Micromiceti (muffe) ed egli giustamente rivendica il vanto di avere scoperto i semi dei funghi.

Importanza micologica del Micheli
Da quanto detto finora risulta evidente che il Micheli pose alla base della sua classificazione dei funghi l’esame della parte fertile (imenio). Impossibile in questo breve spazio riportare tutta la sistematica del nostro. Andiamo quindi per sommi capi.
Egli creò quattro grandi classi in base alla posizione dell’imenio. Interessante la seconda, nella quale inserisce i generi: Fungus, Suillus, Polyporus. e Boletus. Fungus corrisponde all’attuale famiglia delle Agaricacee e ne descrive ben 638 specie sulle 1050 complessive della sua opera. Purtroppo utilizza come criterio il colore delle varie parti del fungo, criterio dimostratosi poi del tutto inconsistente. Suillus comprende i funghi attualmente ascritti alle Boletacee; Polyporus include le attuali Poliporacee terricole. Col nome Boletus definisce invece le Morchellacee.
Nella terza classe pone i funghi aventi i semi alla superficie. Notiamo il genere Clavaria e generi per la prima volta inseriti nel campo allora nuovissimo dei Micromiceti (muffe): Byssus, Botrytis, Aspergillus.
Nella quarta classe sono inseriti i funghi con i semi disposti all’interno del carpoforo. Vi troviamo ad es. i generi: Clathrus, creato dal M., corrispondente a quello attuale; Lycogala (il liquido viscoso in esso contenuto suggerisce il nome, che letteralmente significa “latte di lupo”), Mucilago, Lycoperdon (descritto con moderna precisione); Carpobolus (dal greco karpòs =frutto e bàllo=getto), funghetti che a maturità “lanciano” le spore; Geaster; Tuber; Cyathoides (funghetti a forma di nido d’uccello con piccolissime “uova”, oggi dette peridioli).
Le tavole dedicate ai funghi sono, nel Nova plantarum genera, 46 con 268 specie riportate, in seguito interpretate quasi tutte dal Fries. Dove manca la tavola, l’interpretazione è difficile perché le descrizioni del M. sono troppo sintetiche. Un debole aiuto all’interpretazione delle specie micheliane è stato dato dal ritrovamento di un residuo presso l’Orto botanico di Firenze dell’erbario del M. contenente una trentina di preziosissime “reliquie” micologiche.

Il Settecento dopo Micheli

CARLO LINNEO (1707 – 1778), svedese, autore del Systema naturae (1735), è considerato il massimo botanico di tutti i tempi, in quanto ordinò in maniera definitiva, valida ancor oggi, tutti i vegetali sulla base di un principio-guida universalmente applicabile. Egli basò il suo sistema sugli elementi sessuali delle piante e per la classificazione di un’entità vegetale inventò il sistema dicotomico, detto anche binomio, composto da un nome (genere) seguito da un appellativo (specie). Eccelso ed insuperato nella botanica in genere, Linneo non fece fare passo alcuno alla micologia, anzi la danneggiò, secondo Fries, perché non usava il microscopio e non era in grado di applicare ai funghi la ricerca basata sugli elementi sessuali come per le piante.

Opere sistematiche ed iconografiche
La ricerca micologica proseguì comunque grazie al lavoro di numerosi studiosi, molti dei quali seguaci del Micheli (classificazione sulla base della posizione dei “semi” sulla parte fertile). Fra questi ricordiamo:

GOTTLIEB GLEDITSCH (1714 – 1785) autore di Methodus fungorum, il primo vero e proprio trattato di micologia generale.

CHRISTIAN SCHAEFFER (1718 – 1790) autore di Fungorum qui in Bavaria ac Palatinatu circa Ratisbonam nascuntur (1774), il primo atlante di funghi a colori, con figure colorate a mano.

A. GEORG BATSCH (1761 – 1802) con Elenchus fungorum (tavole ad acquerello dell’autore).

PIERRE BULLIARD (1752 – 1793) con la sua Histoire des Champignons de la France in due volumi creò il capolavoro iconografico della micologia francese: centinaia di tavole colorate splendide con un sistema di incisione e riproduzione da lui inventato.

FLORA DANICA, superba raccolta di 2500 tavole, di autori diversi, illustranti piante fanerogame e crittogame della Danimarca, terminata nel 1845.

J.JACQUES PAULET (1740 – 1826), autore di Traité des champignons, riporta una parte storica, una parte descrittiva con tavole ed anche una parte tossicologica con la descrizione di vari esperimenti sugli animali. Paulet è il padre della micotossicologia. Individuò per primo la tossicità di Amanita phalloides e specie affini e segnalò il fenomeno dell’insorgenza tardiova dei sintomi.

JAMES SOWERBY (1757 – 1822) autore di una superba collezione di tavole di funghi, Coloured figures of English Funfi or Mushrooms.

Sviluppi delle teorie sulla riproduzione dei funghi
Mentre la teoria della generazione spontanea resisteva ancora agli assalti dei metodi sperimentali, molti scienziati si davano da fare per fondare su solide basi l’ipotesi della riproduzione sessuale. In questo contesto di studi avviene la scoperta, da parte dello HEDWIG, degli aschi, ritenuti per molto tempo l’unico ricettacolo produttivo di spore, fino a quando, a metà dell’Ottocento, il Leveillé non scoprì i basidi. Altra questione molto dibattuta era se la riproduzione sessuale dei funghi è come quella delle piante superiori o con caratteri diversi, soluzione questa più vicina alla realtà che oggi conosciamo.

GIOVANNI ANTONIO BATTARRA (Rimini, 1714 – 1789), sacerdote, filosofo e naturalista. Il primo approccio alla micologia di G.A. Battarra avvenne, come lui stesso ci racconta, nell’Abbazia di Vallombrosa, dove si era recato a piedi da Rimini, studiando le splendide tavole a colori della Sylva fungorum del Padre Bruno Tozzi. Era il 1740, e Battarra aveva 26 anni. Da questo momento la passione per la micologia non lo abbandonò più. Dopo quattro anni aveva già dipinto ad acquerello 400 tavole, divenne presto esperto nell’incisione calcografica per preparare le lastre della sua futura opera, Fungorum agri Ariminensis historia, uscita nel 1755. Morì di infarto a 75 anni.
Il suo libro è la prima opera a carattere esclusivamente monografico micologico uscita in Italia: 80 pagine con 40 tavole in calcografia da lui stesso incise. Ad una parte introduttiva (comprendente note sull’utilizzazione dei funghi e tossicologia fungina) segue quella sistematica con la descrizione di 248 specie.
Sulla questione della generazione dei funghi Battarra è sostenitore della riproduzione per seme, basandosi sull’autorità del Micheli.
Interessanti sono le sue note sulla commestibilità e tossicità dei funghi. Dopo aver fatto una specie di graduatoria di sicurezza (Cantarelli, Porcini ed Ovoli sono solo al secondo posto…) si sofferma, da buon Romagnolo, sulla cottura: è spesso una sbagliata cottura che dà disturbi scambiati per intossicazioni. I funghi devono essere ben lavati, sbollentiti, strizzati (?!) e fatti macerare nell’aceto: solo in seguito si può passare alla cottura. Di ogni fungo il B. indica la commestibilità o la tossicità, con un solo errore, piuttosto grossolano: dà infatti come commestibile Omphalotus olearius (che egli chiama Polymyces phosphoreus per la caratteristica fosforescenza delle lamelle, fenomeno da lui per primo segnalato).
Per quanto riguarda la sistematica, B. segue un sistema tutto suo, che tutto sommato lascia molto a desiderare per la sua empiricità. Lo stesso non può dirsi per la descrizione delle specie, in cui B si rivela acuto indagatore e descrittore dei caratteri specifici. Anche le tavole sono precise e rappresentano un reale progresso rispetto a quelle, pur famose, del Micheli.
Giudizi molto positivi sull’opera del Battarra furono dati dal Persoon, che gli dedicò anche un genere (Battarrea) e dal Fries, che gli riconobbe una posizione di primo piano nel Settecento.

GIOVANNI ANTONIO SCOPOLI (Cavalese, 1723 – Pavia, 1788). Compì i suoi studi a Trento e ad Innsbruck. Esercitò come medico, ma il suo interesse prevalente era la botanica. Trascorse sedici anni come medico condotto ad Idrija, località della Carniola (attuale Slovenia) a poca distanza da Cividale, a quel tempo villaggio minerario con 2000 persone da assistere. Fu una vita dura e sventurata, con la morte della moglie e dei figli. Fu poi docente di mineralogia a Chemnitz (Ungheria) e infine titolare della cattedra di Botanica Chimica all’Università di Pavia, dove ricostruì l’Orto Botanico. Morì l’8 maggio 1788, a 65 anni. Da vari anni la sua vista era gravemente deteriorata per il lungo e continuo uso del microscopio.
Scopoli scrisse moltissime opere nell’ambito delle scienze naturali. La più importante opera di botanica è Flora Carniolica (1760 e 1772), frutto di dieci anni di escursioni nella Slovenia occidentale.
Egli divide i funghi in 11 generi, secondo la sistematica di Linneo, e basandosi prevalentemente su caratteri esteriori. Si rivela invece molto preciso ed efficace nella speciografia, riuscendo a caratterizzare così bene una specie da renderla inconfondibile anche con la semplice descrizione, senza l’aiuto di tavole colorate o disegni al tratto. In altre parole, per ogni specie studiata (187 complessivamente) egli scoprì i veri caratteri specifici, costanti e tipici. Una trentina di queste specie portano il suo nome d’autore (un esempio per tutti: Amanita caesarea).
Varie altre specie fungine sono descritte dallo Scopoli in altre sue opere di botanica.

Sviluppi delle teorie sulla generazione dei funghi
In questo periodo va segnalato il fondamentale contributo dato dall’abate LAZZARO SPALLANZANI di Scandiano (1729 – 1799), docente all’Università di Modena e di Pavia, sulla generazione degli organismi microscopici: dimostrò in maniera inconfutabile e con esperimenti di laboratorio l’impossibilità della “generazione spontanea”. Questa ipotesi fu confermata assai più tardi, ma in modo veramente definitivo, da Luigi PASTEUR.

Per completare il quadro degli autori italiani che si occuparono di funghi, ricordiamo VITTORIO PICO, medico torinese, autore di varie dissertazioni in cui affronta anche questioni relative alla commestibilità e tossicità dei funghi, e CARLO ALLIONE, botanico rinomatissimo ai suoi tempi, che prende in considerazione nella sistematica il colore delle lamelle.

Gli inizi dell’Ottocento

Ormai la micologia è riconosciuta scienza autonoma rispetto alla botanica. Se questo avviene per merito di micologi stranieri, è anche vero che ciò avviene per la più completa conferma dei principi del Micheli sulla sistematica fungina, basata sulla posizione e sulla morfologia della parte fertile del carpoforo. E fu proprio il grande Christian Hendrick PERSOON (1755 – 1836) a portare fino in fondo le teorie micheliane. La sua opera è basata su un minuzioso lavori di analisi e confronto di forme e caratteri eseguito in profondità come mai era avvenuto prima. Sua opera principale è la Synopsis methodica fungorum del 1801. Per la prima volta viene espressa la verità che il cosiddetto “fungo” non è che la parte fruttifera. Persoon suddivide i funghi in due grandi classi: Angiocarpi (con spore che maturano all’interno del carpoforo) e Gimnocarpi (con la parte fertile all’esterno del carpoforo); descrive 71 generi e 1526 specie.

Altri importanti micologi del periodo sono Christian NEES e Augustin P. DE CANDOLLE.

ELIAS FRIES (Femsiö, Svezia, 1794 – 1878). Grandi progressi aveva fatto la micologia agli inizi dell’Ottocento, ma grande era anche la confusione per la mancanza di collegamento fra i micologi, l’insufficienza dei mezzi di indagine, l’assenza di una medodologia accettata e rispettata nella sistematica. Bisognava trovare un nuovo sistema di classificazione sulla base di caratteri univoci dei funghi. Questo tentò di fare, con successo, Elias Fries, il grande Fries, unanimemente riconosciuto come il padre ed il massimo esponente della moderna micologia, scienza alla quale dedicò tutta la sua lunga vita. La sua opera è stata la pietra angolare dell’edificio della micologia moderna ed ha fornito le basi per formazione di generazioni di micologi, rendendo possibili gli attuali progressi di questa scienza.
Fries fu ordinario di Botanica e Prefetto dell’Orto Botanico all’università di Uppsala.
Sua opera fondamentale è il Systema mycologicum (1821 – 1832) completato da aggiornamenti ed altre opere successive (fra queste importanti Epicrysis e Icones selectae fungorum), frutto di assidue erborizzazioni, di studio delle opere di tutti gli autori precedenti, compresi gli antichi, di scambi con i più famosi micologi del tempo.
Descrive parecchie migliaia di funghi (l’indice alfabetico “Elenchus fungorum” del Systema mycologicum comprende oltre 10.000 voci) con brevi e precise diagnosi. La classificazione è basata sul concetto della “filogenesi” , cioè degli stadi dello sviluppo evolutivo dei funghi, dalle forme più semplici a quelle più complesse, tipiche dei funghi con imenio perfettamente sviluppato. Quattro sono pertanto le grandi classi di raggruppamento: Coniomiceti, Ifomiceti, Gasteromiceti e Imenomiceti. Quest’ultima classe (funghi con superficie fertile, o imenio, esposta all’aperto) è suddivisa in 7 Ordini. Questa classificazione fu sovente mutata in seguito, in base ai progressi che la micologia andava facendo, di cui il Fries onestamente teneva conto (fra questi le scoperte del Leveillé ed Hedwig che portarono alla distinzione fra Basidiomiceti ed Ascomiceti). Intanto l’interesse del Fries si spostava esclusivamente verso i Macromiceti.
Il successo dell’opera del Fries fu immenso, tanto che le sue denominazioni furono adottate dal Congresso botanico internazionale di Bruxelles (1910) come base della nomenclatura micologica moderna.
Anche oggi il sistema micologico friesiano, pur se basato esclusivamente su caratteri morfologici macroscopici, continua ad essere aiuto indispensabile per chi si accinge allo studio dei funghi superiori. Lo stesso Giacomo Bresadola si mantenne sostanzialmente fedele alla sistematica del Fries.

L’Ottocento negli Stati sardo-piemontesi

Vari botanici e micologi si formarono alla cattedra di Botanica (con annesso Orto botanico) dell’Università di Torino, capitale del Regno di Sardegna, figure in certo senso “minori”, che tuttavia al loro tempo ebbero fama e considerazione notevoli. Ricordiamo fra questi: Carlo Antonio BELLARDI, Giovan Battista BALBIS, Paolo CUMINO, Giovanni Francesco RE e Giovanni BIROLI. I lavori di questi micologi sono riportati nel 7° volume, di 400 pagine, dell’Herbarium Pedemontanum (Torino, 1837).
GIOVANNI PAOLO CUMINO (1762 – 1828 ?), converso certosino della regola di S. Brunone (frà Ugo Maria Cumino), visse alla Certosa di Pesio tra il 1788 ed il 1802 era  lo speziale del convento. Fù un egregio botanico e micologo. Alla soppressione dei conventi da parte delle autorità francesi si trasferisce a Cuneo e continua la sua professione di speziale, viene anche anche incaricato della direzione del neonato Orto Botanico di Cuneo che non ebbe lo sviluppo meritato per la mancanza di fondi da parte del governo francese. Collaborò con il Bellardi, Balbis, Re ed altri illustri botanici dell’epoca inviando numerosi reperti, alcuni ancora conservati all’Orto Botanico di Torino. Fu membro corrispondente dell’Accademia delle Scienze e della Accademia di Agricoltura di Torino. Il Cumino lasciò una interssante memoria micologica dal titolo “Fungorum Vallis Pisii Specimen” (1805) in tale opera, corredata da tre tavole, descrive centocinquantuno specie di funghi di cui alcune come nuove specie. Hanno parlato di lui il Fries, Saccardo, De Notaris, Re, Bellardi, Balbis, ecc., tutti in modo positivo lamentando lo scarso interesse per la sua opera da parte del mondo scientifico.

DOMENICO VIVIANI (1772 – 1840) merita un breve commento come autore di un significativo lavoro micologico. Nato in Liguria, laureato in medicina ma più interessato alla botanica, dopo un periodo piuttosto travagliato divenne docente di Botanica all’Università di Genova, dove fondò l’Orto Botanico. Pubblicò varie opere di botanica, illustrate con ottime tavole. Sanissimo fino al 50° anno, fu poi travagliato da numerose malattie, anche le sue facoltà mentali furono gravemente compromesse e morì a 68 anni in uno stato di inedia e consunzione. La sua opera micologica più importante è I funghi d’Italia (Genova, 1834), un volume in-folio con 60 tavole (delle 105 che aveva approntato), che rappresentano 72 specie di funghi. Quasi tutte le specie sono corredate di un ricco testo esplicativo con diagnosi in latino, descrizioni, bibliografia, notizie sulla commestibilità ecc. Le sue tavole, colorate a mano, sono fra le più belle dell’iconografia micologica italiana. Il valore di quest’opera è dato dal fatto che le tavole sono ricavate dal vero, non ricopiate da opere straniere, dall’abbondanza delle notizie e dalla base di ricerca, estesa a gran parte del territorio italiano.

I micologi lombardi dell’Ottocento

In Lombardia il periodo coincidente con la dominazione austriaca è caratterizzato dall’attenzione utilitaria alla micologia, che diventa oggetto di interventi delle Autorità pubbliche sotto l’aspetto economico e sanitario. Si trattava di disposizioni atte a prevenire gli avvelenamenti da funghi, purtroppo molto frequenti, mediante una regolamentazione della loro vendita al pubblico. L’incarico di studiare la regolamentazione adatta era affidato alle università di Pavia e Padova e successivamente le “Congregazioni municipali” emettevano i loro Avvisi o Bandi. In essi venivano date disposizioni sui punti vendita e sulle specie ammesse. Interessanti e significativi sono, per la loro precisa e valida attualità, gli emendamenti che il micologo bassanese Giovanni Larber proponeva nel 1829 per questi regolamenti: concedere la licenza di vendita solo previo esame ai venditori; obbligare i medici a denunciare tutti i casi, anche lievi, di avvelenamento; rendere responsabili osti e ristoratori delle eventuali intossicazioni avvenute nei loro esercizi.

Queste disposizioni sui stimolarono una copiosa produzione di libri ed opuscoli, che furono utili se non altro per l’educazione micologica, mentre il lo valore scientifico è modesto. Fra i tanti ricordiamo:

– Domenico BAYLE BARELLE (Milano, 1768-1811) pubblicò una Descrizione esatta dei funghi nocivi o sospetti;

– Giovanni ZANTEDESCHI (1773-1846), veronese trapiantato a Brescia, autore di Descrizione dei funghi della provincia di Brescia;

– Giuseppe BERGAMASCHI (1787-1867), pavese e medico a Brescia, scrisse Osservazioni micologiche descrivendo tutti i funghi della provincia pavese;

– Giuseppe MORETTI (1782-1853), botanico per 25 anni all’Università di Pavia, diede un grande impulso agli studi micologici e alla sua scuola si formò il grande Vittadini, scopritore appunto di Amanita vittadinii, specie creata da Moretti;

– Giuseppe BENDISCIOLI (Brescia, 1787 – 1864), pubblicò nel 1827 una Collezione dei funghi commestibili e malsani della provincia di Mantova, in cui affronta anche l’argomento della coltivazione;

– Francesco CIMA, autore di una Relazione e tavola sinottica dei funghi commestibili (1826) dei funghi da ammettere alla vendita nella città di Bergamo;

– G. Battista BALBIS e Domenico NOCCA in Flora ticinensis (Pavia, 1816 – 1826) forniscono una prima e abbastanza valida flora micologica regionale con 213 specie di funghi.

Interessanti in questo periodo i primi esperimenti di coltivazione dei funghi, che si possono considerare, anche se erano empirici ed approssimativi, un tentativo di risolvere il problema, evidentemente molto esteso, delle intossicazioni. Sappiamo che Antonio PEREGO, professore di scienze al liceo di Brescia, ottenne il Pleurotus ostreatus da substrato di spremitura delle bacche di alloro. Paolo BARBIERI, custode botanico dell’Orto botanico del liceo di Mantova ottenne la Volvaria bombycina da mistura di foglie di Vallonea insieme con paglia, terriccio e letame equino. In Liguria il marchese LASCARIS coltivò con successo Psalliota hortensis con residui di torchiatura dell’olio.

Le opere dei micologi lombardi fin qui presentate, se pur meritevoli sul piano divulgativo, restavano pur sempre mediocri, prive di originalità in quanto ricalcavano lavori di autori stranieri e non introducevano novità soeciografiche. Ma proprio allora la Lombardia si apprestava a divenire la culla della micologia italiana con Carlo Vittadini.

CARLO VITTADINI (1800 – 1865) nacque a Monticelli, frazione di S. Donato Milanese da modesti agricoltori, studiò prima a Milano e poi all’Università di Pavia, dove si laureò in medicina. Fu allievo e poi assistente del prof. Moretti. La sua tesi di laurea, ispirata alle connessioni fra medicina e micologia, si intitola: Tentamen mycologicum seu Amanitarum illustratio (Saggio micologico, ossia Illustrazione delle Amanite). In essa, dopo una parte generale ed una di micotossicologia, descrive 14 specie di Amanita da lui ritrovate. Fra queste la già citata Amanita vittadinii Moretti, che egli descrive solitaria, amante delle zone umide, di sospetta commestibilità ed accompagna con una superba tavola in bianco e nero. Egli insegna la via esatta per sviscerare i i veri caratteri differenziali di una specie e delle specie consimili attraverso una rigorosa analisi morfologica.
Si dedicò poi con tutte le sue forze, aderendo all’invito del Fries rivolto ai micologi italiani, allo studio delle Tuberacee. Frutto delle sue ricerche fu la Monographia Tuberacearum edita da Rusconi a Milano nel 1831, corredata di cinque tavole a colori da lui disegnate ed incise, in cui descrive 65 specie, di cui ben 51 completamente nuove. In tutto tratta 10 generi nuovi o rivisti. Con quest’opera era detta veramente una parola nuova in un campo della micologia rimasto fino allora misconosciuto.
Scaduto l’incarico di assistente, “dovette” dedicarsi alla professione medica, che esercitò a Milano. Qui si fece sentire nei confronti di tante opere approssimative e perfino pericolose sulla commestibilità edi funghi pubblicando nel 1835 Descrizione dei funghi mangerecci più comuni d’Italia. Vi descrive 56 specie, di cui 15 nuove, sotto tutti gli aspetti: morfologici, biologici, ecologici, gastronomici e tossicologici. Accompagnano l’opera 44 bellissime tavole incise su rame e da lui stesso colorate. Importante l’aspetto tossicologico della trattazione, basata su osservazioni personali, esperimenti con animali e su se stesso. Da notare che il Vittadini fu il primo a riconoscere l’assoluta innocuità di Amanita citrina.
Nel 1841 vinse un concorso dell’Accademia delle Scienze di Torino con Monographia Lycoperdineorum. Bello e significativo il motto con cui presenta il suo lavoro: Melius est notas exsactius definire species, quam novas plerumque incertas proponere (E’ meglio definire più esattamente le specie note, piuttosto che proporne delle nuove per lo più incerte). Mettendo ordine nel caos che regnava in questo gruppo di funghi, vi descrive 50 specie, di cui 23 nuove, molte delle quali ancora valide.
Nel 1844, su invito del Governo, preoccupato dei numerosi casi di avvelenamento, scrisse un Trattato sui funghi mangerecci più conosciuti e paragoni con quelli velenosi con cui possono essere confusi.
Nel frattempo la sua salute era divenuta molto cagionevole e Vittadini non fu più in grado di stare al passo con gli enormi progressi che lo studio degli Ipogei ebbe in Europa, soprattutto ad opera di TULASNE (Fungi ypogaei, 1851), che poté, grazie alla recente scoperta dei basidi (Leveillé e Berkeley), distingue gli Ipogei Basidiomiceti da quelli Ascomiceti, migliorando notevolmente la sistematica. Infatti portò le specie a ben 124 con 25 generi.
Vittadini si occupò anche di Micromiceti, in particolare con lavori sul “mal del calcino”, che procurava gravissimi danni agli allevamenti dei bachi da seta.
Morì di tisi il 20 novembre 1865.
Nel 2000, proclamato “Anno Vittadiniano” nel duecentesimo anno dalla nascita, Vittadini è stato adeguatamente celebrato con una serie di iniziative, promosse fra l’altro dall’AMB e dalla Federazione Micologica Lombarda: convegno il 29 gennaio a Milano, Comitato Scientifico AMB a Triuggio (MI) in maggio, in giugno mostra delle sue tavole originali a S. Donato Milanese, un libro sta uscendo a cura della provincia di Pavia.

ANTONIO VENTURI (1806 – 1864), bresciano, si dedicò alla micologia con viaggi ed esperimenti originali, osservazioni ecologiche e studi sulla coltivazione. Nel 1842 pubblicò Studi micologici con descrizione di 62 specie. Nel 1845 uscì I Miceti dell’agro Bresciano, corredato di 64 tavole, con un ricco repertorio di osservazioni bibliografiche, critiche, tossicologiche ed ecologiche. Fu autore di varie specie, che però non resistettero alla critica posteriore. Ai suoi tempi ebbe notevole fama e fu membro di numerose Accademie italiane ed europee.