COMMESTIBILITÀ DEI FUNGHI

È assai verosimile ipotizzare che pressoché tutti gli appassionati di micologia, siano essi studiosi, semplici curiosi o accaniti raccoglitori, si sono avvicinati a questa disciplina attratti dall’aspetto più utilitaristico della questione: il possibile impiego dei funghi in cucina. Non è certo questa la sede ove disquisire su pregi ed eventuali difetti della gastronomia micologica ma è certo che, specialmente in alcune culture, i funghi in cucina non solo sono considerati positivamente ma, sovente, rappresentano una vera e propria “leccornia”.

Tuttavia, così come sappiamo che l’ingestione di funghi dichiarati velenosi può causare spiacevoli incidenti, fino ad arrivare al decesso, allo stesso modo dobbiamo renderci conto che il consumo di funghi dichiarati commestibili esige alcune consapevolezze dalle quali non si può prescindere. Per prima cosa è opportuno definire il termine di commestibilità riferendolo ai criteri sui quali si fonda.

* Il primo criterio, sul quale fonderemo la definizione di commestibilità di una determinata specie, è dato dall’assenza di principi tossici. Tale criterio è quello di base e, al contempo, è quello meno soggetto a interpretazioni: la commestibilità è definita per assenza di una condizione, più che per una caratteristica propria. I funghi che possiedono principi tossici saranno definiti in quanto tali graduandone le loro caratteristiche in crescendo, da tossici in determinate condizioni, a tossici “tout court”, a velenosi, fino ad arrivare a velenosi-mortali. Per le specie non sufficientemente indagate, ma potenzialmente tossiche date le affinità botaniche con specie riconosciute tali, si introdurrà il giudizio di “sospetto”. A questo proposito è bene sottolineare che la composizione chimico-tossicologica è stata studiata solo su poche specie velenose: per tutti gli altri funghi, compresi quelli dichiarati commestibili, ben poco si sa in tal senso. Questo spiega perché funghi ritenuti velenosi (talora addirittura mortali, come Cortinarius limonius o C. splendens), dopo lo studio di numerosi casi di ingestione senza conseguenze, siano ora annoverati (più per doverosa cautela che per oggettive motivazioni) fra i “non commestibili” o fra i “sospetti”. Al contrario sono sempre più numerose le specie dichiarate in passato come innocue o commestibili, che stanno dando seri problemi di intossicazioni. È il caso, per esempio, di Clitocybe nebularis (Gelone di montagna) e di Armillaria mellea s.l. (Chiodino), per citare solo le più note. La tradizione di consumo di queste specie è talmente radicata che risulta difficile convincere i micofagi che si tratta di specie oggettivamente tossiche (almeno in determinate condizioni sia climatiche che di trattamento); è ovvio che si confida su tempestivi studi mirati e approfonditi per arrivare quanto prima a dare una risposta all’ormai pressante questione che ogni anno provoca numerosi casi di intossicazioni.

* Il secondo criterio, anche questo per così dire oggettivo, è dato dall’analisi della consistenza del carpoforo oggetto del giudizio di commestibilità. Così, una polpa aggredibile dall’azione della masticazione potrà soddisfare questo criterio, mentre funghi di consistenza coriacea o legnosa, saranno esclusi dall’utilizzo in cucina anche se non si riscontrano elementi certi di tossicità.

* Il terzo criterio è invece quello che rappresenta più elementi di problematicità anche sul piano della delimitazione e della definizione perché è quello che si basa sul rapporto tra prodotto (fungo) e la percezione dei sensi preposti alla degustazione. Certamente vi sono punti che si avvicinano all’oggettività; ad esempio, che Boletus edulis, dato il suo sapore gradevole, sia un ottimo fungo commestibile è incontrovertibile, così come è altrettanto incontrovertibile che Tylopilus felleus non è commestibile stante la sua amarezza inaccettabile. Tuttavia, è intuitivo che ogni definizione tesa a qualificare con un aggettivo (buono, ottimo, eccellente, non commestibile etc.) le peculiarità di commestibilità è frutto di un giudizio personale e come tale non può costituire un dato oggettivo. In letteratura micologica (e in questo testo) sono usate delle “etichette” per definire il grado e la qualità della commestibilità. Si va dalla definizione di “senza valore” (o “privo di interesse”) per i funghi che per inconsistenza e per dimensioni non possono costituire un momento di interesse alimentare; si tratta, cioè, di funghi le cui caratteristiche rivestono elementi di apprezzabilità sul piano della ricerca e non sul piano alimentare non arrivando, a questi fini, neppure a un livello di interesse classificatorio.

Vi sono poi le definizioni che graduano lo stato di interesse partendo dalla sua negazione; così si indicheranno come “non commestibili” tutti quei funghi che, a causa di odori o di sapori sgradevoli o repellenti, oppure aventi un aspetto improponibile o una consistenza disgustosa, non meriteranno gli onori della tavola; in alcuni testi si utilizza la definizione di “commestibile mediocre” per quei funghi che superano di poco la soglia della rigettabilità mentre la definizione di “commestibile” senza aggettivazione indica uno stato di discreta appetibilità, talora acquisito in relazione a procedure particolari di preparazione (p. es., Sarcodon imbricatus, discreto polverizzato, ma ritenuto scadente allo stato fresco etc.). Da questo stadio in poi l’appetibilità si fa più marcata e i funghi indicati come “commestibile discreto”, “buon commestibile”, “eccellente”, rappresentano un panorama di soggetti degni di arricchire la tavola e la cui gradevolezza è commisurata molto spesso al gusto personale e all’inclinazione individuale. Dal canto nostro, preferiamo astenerci dal definire graduatorie e ci atterremo alla generica etichetta di “commestibile”, lasciando ogni giudizio qualificante al gusto personale del lettore.

Per chiudere il capitolo riguardante la commestibilità, è bene richiamare alcuni concetti e alcune avvertenze.

* Il concetto di commestibilità (dei funghi) dovrebbe essere quasi sempre limitato alla condizione di cottura del prodotto fungino; elementi tossici risiedono in quasi tutti i funghi allo stato crudo (al di là dei classici funghi con principi tossici termolabili come, ad esempio le Morchella e i Boletus del gruppo dei “luridi”) per cui l’abitudine alla consumazione dei funghi crudi dovrebbe essere abolita o, quanto meno, circoscritta a una cerchia molto limitata di specie fungine1; citiamo, p. es., Amanita caesarea, Tuber magnatum, Russula virescens, i Boletus del gruppo dell’edulis, Guepinia helvelloides (= Guepinia rufa; ≡ Tremiscus helvelloides) sempre e solo limitatamente a esemplari freschissimi e, comunque, assunti in piccole quantità.
Le condizioni di cottura consigliate sono quelle che prevedono un tempo non inferiore ai 15 minuti di bollore, per consentire, con certezza, il raggiungimento, anche all’interno della fetta, di temperature intorno ai 70-80 °C.

1) Si tenga conto, tuttavia, che possono talora insorgere fastidiosi fenomeni (soggettivi) di tipo allergico o di intolleranza.

* La commestibilità deve essere riferita, in ogni caso, a funghi sani e in buono stato; funghi dal precario stato di conservazione, dovuto alla degradazione temporale o ambientale possono essere, oltre che poco appetibili, decisamente pericolosi; funghi troppo imbibiti, troppo vecchi o mal conservati non devono essere consumati. Ma a proposito di conservazione bisogna annotare che anche il processo di conservazione può incidere sul grado di commestibilità cambiandone, in bene o in male, le caratteristiche; ad esempio, Catathelasma imperiale, a tutti noto come “Fungo patata”, è ritenuto molto mediocre allo stato fresco, mentre è molto apprezzato conservato sott’olio; viceversa, Cantharellus cibarius, il ricercato “Finferlo”, è ottimo da fresco, ma congelato crudo assume, una volta scongelato e cotto, un sapore amaro che lo rende immangiabile. A tale proposito suggeriamo di cuocere sempre preventivamente il prodotto destinato al congelamento.

* L’ambiente nel quale il fungo cresce può produrre effetti negativi sulla sua commestibilità; non è certo qui il caso delle false credenze popolari che ritenevano il chiodo arrugginito, o il morso della vipera, o ancora lo straccio fradicio, responsabili della non commestibilità; ma si tratta piuttosto degli effetti che gli elementi inquinanti hanno sui funghi; così, senza dilungarci nell’analisi delle singole situazioni e delle cause biochimiche che le creano, ricorderemo, per esempio, come l’uso dei pesticidi in agricoltura produca una sorta di tossicità indiretta sui funghi che crescono in luoghi in cui quest’uso è praticato; la vicinanza di arterie ad alto scorrimento di traffico sconsigliano la raccolta a scopo edule di carpofori, così come la sconsiglia la prossimità di zone industriali, urbane e minerarie; in tutti questi casi il pericolo di avvelenamento non è dato dal fungo, ma dalle condizioni di degrado dell’ambiente nel quale esso cresce e nel quale il fungo fa sintesi anche chimica; lo stesso perdurare degli effetti dell’inquinamento radioattivo suggerisce questo punto di attenzione.

* La quarta e ultima avvertenza è quella che consiglia di cibarsi di funghi con cautela e con parsimonia; consumi abbondanti, costanti e frequenti sono da evitare, come stanno a indicare studi recenti e reiterate sperimentazioni in tal senso.

Testo tratto da Atlante fotografico dei funghi d’Italia vol. 1, edito dal Centro Studi Micologici dell’A.M.B.